sabato 30 marzo 2013

"...Non vi ho chiesto nulla prima, quando vi ho preso con me. E niente vi chiederò dopo, tra poco, quando riprenderemo la strada. Credeteci, è una promessa solenne. Ho imparato che in luoghi come quello che stiamo attraversando, le intenzioni, i tentativi, i desideri, devono essere rispettati come si fa con un giuramento. Non è una questione d’onore. Non ci serve a niente quello. E’ sopravvivenza..."

Tratto da "La bolla", di Domenico Caringella 

sabato 23 marzo 2013

Parole d'amore

Questa è la cronaca di un attraversamento del deserto.

Esco abbastanza presto di mattina, saranno state le 8.
La sera precedente l’avevo tutta passata sul mio divano rosso a leggermi i racconti e le poesie di tutti i partecipanti al concorso, e me l’ero presa molto a cuore – e che cazzo, pensavo, sei il presidente di giuria, hai delle responsabilità, fatti forza e lavora bene. Ho chiamato un taxi e mi sono fatta portare in stazione Cadorna. Da lì, tra una telefonata di Ruggero-il-mio-amico e una di mia mamma cui non mi è passato per l’anticamera del cervello di rispondere, ho preso il Malpensa Express delle 9.23 per l’aeroporto. 
Tre quarti d’ora in una calura zuppa. Inizio Miller, “Il colosso di Marussi” e non posso fare a meno di pensare: maledetto, sei in Grecia mentre io sono immersa in un’aria fetida. Poi arrivo, e mi uniformo alla folla naso in su che controlla orari e gate per i check in, e scopro che più che uno sciopero si tratta di una pialla universale. Mi infliggono una sfilza interminabile di CANCELLED, CANCELLED, CANCELLED. Soppressi il 95% dei voli, secondo quanto una voce femminile vellutata e impersonale ci comunica dagli altoparlanti.
Chiamo Lecce.
Dico che qui è tutto cancelled, vedano un po’ che cosa possono fare, e dalla segreteria del concorso – mi dicono che cercano di trovarmi un volo per il pomeriggio.
Mi siedo su una poltroncina di finta pelle marrone e proseguo Miller, sempre più maledetto, sempre più al sole e nella sterminata bellezza ellenica.
Ciondolano poliziotti. Tre, quattro, cinque. Hanno l’aria da ricoverati. Gli mancano una salvietta al collo, la cannetta del catetere in mano e un commento sullo schifo che è il pollo lesso. Nemmeno uno, e dico uno, lo immaginerei capace di corrermi dietro per più di cento metri se mai rubassi un panino dal market dei panini – dove mi trovo con Miller nella mano destra, dito indice a tenere il segno e occhi tutti alla ricerca di una crosta col prosciutto che sembri un po’ meno la lingua che penzola dalla bocca di un cane morto.
Compro un panino – nel frattempo sono le 13.
Lo mangio, e davvero è una punizione.
Mi chiamano dalla segreteria: nulla da fare. Mi tocca l’Eurostar da Stazione Centrale diretto a Bari (ore 15.05), e poi (ore 23.10) un interregionale per Lecce.
Riprendo il Malpensa express – Miller nel frattempo era a Poros e io lo maledicevo giusto alla frase “arrivare a Poros dà la sensazione del sogno profondo”, perché io non avevo nessuna di quelle sensazioni. Anzi, sì. Una sì. Ma era tutta responsabilità del panino.
Torno a Cadorna, prendo un taxi, arrivo in Centrale, e mancano una manciata di minuti alla partenza di un Eurostar sul quale mi auguro di trovar posto.
Guado la folla con scuse improbabili – va detto, tutti disponibili a credermi –, faccio il biglietto e mi scapicollo fino al binario 15.
Salto sul treno al volo. Di lì a mezzo minuto sarebbe partito. E in effetti, di lì a mezzo minuto, parte. Il treno. Non l’aria condizionata.
La carrozza si increspa lentamente, poi monta all’improvviso – sempre le solite, queste dinamiche insurrezionali – e un tizio in tutto e per tutto somigliante al noto chansonnier Lando Fiorini ma notevolmente più stempiato comincia a dare di matto e a minacciare genericamente chiunque e qualunque.
Dice che l’Italia non va, che all’estero ci mangiano tutti sulla testa, e che se il Paese ce l’avesse in mano lui, tempo due mesi e tutto andrebbe a posto. Poi raggruppa un discreto numero di spumeggianti facinorosi di ultradestra sdoganata, li convoca alla battaglia e conducono un’irruzione – irruzione che io ho seguito per scrupolo di cronaca, e che, va detto, è stata meno arrembante del dichiarato – nella carrozza del capotreno.
Tornano trionfanti e dicono di aver ottenuto la revisione di “uno che ci capisce”.
L’uno che ci capisce si presenta dopo mezz’ora. È un tizio basso, tarchiato, con la patta slacciata, che con l’aria di essersi ripreso a fatica da una grassa pennichella. Apre uno sportello, traffica, si gratta la testa, fuoriescono bestemmie, arranca contro il meccanismo, poi chiude l’anta in cui ha sudato sette camicie e dichiara battaglia persa.
Ci spostano di tre carrozze, ci fanno occupare altri posti – Lando Fiorini si è calmato, ora scherza con una tipa ma si sente in dovere di ricordare che se non c’era lui, noi, figurati – e a me salta in mente la più ovvia delle obiezioni. Chiedo: “E se sale qualcuno a Bologna e pretende il mio posto che, tra l’altro, gli spetta di diritto?”
Il controllore mi fa: “Stia tranquilla.”
A Bologna una tizia col bagaglio a mano rosa reclama il suo, mio, posto.
Le spiego, mi alzo, chiamo il controllore di prima.
Mi trasloca.
Cambio altre due carrozze fino ad Ancona.
Da Ancona il treno corre parallelo al mare fino a Termoli.
C’è questa Riviera a suo modo bella, la Riviera di parte della mia infanzia – quella non romana - e ci sono tutti gli accessori adriatici che uno si aspetta, a destra le colline pettinate e verdi, a sinistra spiaggia, ombrelloni un po’ chiusi un po’ no, i locali con le insegne volgari e naif, i nonni che camminano con le scarpe penzoloni al collo, poi due ragazzi abbracciati, poi un cane a caso, poi un bambino coi calzoni tirati su.
Arrivo a Bari con un leggero ritardo, ma l’Interregionale ci aspetta.
Tempo due ore ed ecco Lecce, dopo che ho attraversato paeselli, stazioni deserte, periferie sghembe, casermoni e mare che solo immagino.
È l’1.20.
I ragazzi dell’organizzazione vengono a prendermi, mi caricano in auto e mi depositano nell’albergo in centro storico in cui passerò la notte. Lo sanno che ho una casa qui, ma così il tutto assume una veste più professionale.
Mi succhio furiosamente una sigaretta e si sta un po’ così, un’ora e mezza almeno, in piedi in camera a parlare del festival, della fatica che fanno a organizzarlo, delle elezioni, se Milano mi piace o no e la risposta è lunga, di Londra solo poche parole perché mi emoziono, di un ragazzo che è lì con me in quel momento che mi ha conosciuto a Mantova un giorno che stavo chiacchierando con Capossela e io non me lo ricordo (vergogna, senso di colpa, ma mi solleva e mi dice che capisce, che immagina, chissà quanta gente mi presentano nella vita).
Poi me ne vado a nanna.
Il giorno dopo, sveglia alle 10 e poi all’università, a incontrare gli altri due membri della giuria, Luciano e il professore.
Svegliarsi, farsi la doccia, aprire la porta e trovarmi a Lecce è una cosa che mi mette sempre di buon umore. Faccio colazione ed esco.
Attraverso una piazza deserta. Questa chiarità barocca, questo sfolgorìo spagnolo e merlettato, questi angoli, questa fuga bassa dei profili delle case.
Credo di sentirmi felice, lontano da un po’ di lavoro che mi dava l’ansia, qui a respirare un’altra aria, un’altra forma delle cose.
Mi viene in mente la volta che ho visto questa città per la prima volta.
Avevo alle spalle ancora km di autostrada, la fine della scuola, il ricordo di un bar in una stazione di servizio a Canne della Battaglia
Ero sbarcata in questa casa enorme in cui mi perdevo e dove tutto mi pare va assolutamente fuori misura, fuori dalla mia che ero altra 58 cm.
E la città poi… mi ha scosso, non c’è un altro modo di dirlo. Il cielo era tiepido, violaceo, drammatico e addossato. Forse sarebbe piovuto. E poi l’odore dell’aria, la quiete semplice delle strade, le scrostature e la meraviglia.
Così me n’ero andata a spasso con mio padre, vagando per le strade come guidati dalla casualità e ho visto uno stornellatore di strada che cantava in napoletano, un mercatino di collane, locali che rigurgitavano di persone e i colori erano vivi anche di notte, una pasta accecante che mi dava fitte alla pancia.
Poche altre città mi hanno fatto quest’effetto addominale. Anzi, solo due. Una è Roma. L’altra è Gerusalemme.
E adesso stanno tutte lì, dentro di me. Impresse indelebilmente. Mi seguono sempre. E sono loro grata, perché mi hanno fatto viva.
Cammino e me ne vado in giro, la gente non lo sa, ma se mi guardasse bene vedrebbe che sono oblunga, e che mi porto sempre dentro i chilometri quadrati che amo.
All’incontro fila tutto liscio. Con Luciano siamo in accordo da subito, chi deve vincere e perché.
Nella sala ci sono una sessantina di ragazzi.
Racconto la mia odissea ferroviaria e poi dico qualcosa in generale sul livello del materiale che è arrivato. In verità un po’ ammorbidisco, non mi va di essere troppo sarcastica, non è giusto e non ha il minimo senso, però una domanda me la faccio da anni e cioè: perché mai – e accade spesso, spessissimo – una persona solitamente ragionevole e sensata, riempie pagine e pagine di affari suoi, le spedisce a un concorso, e crede di avere diritto a un premio? Perché non capisce questo solco tra l’uso terapeutico della carta e il nonsenso di far precipitare l’autoanalisi nell’ufficio di un editore o di un premio parrocchiale? Perché non intuisce la differenza tra il referto psicanalitico, l’aneddoto da treno, e la letteratura?
Perché anche il mio parrucchiere mi dice, mentre mi profila la frangia: “Se stessi qui a raccontarti, sai per quanti romanzi ti darei ispirazione? Te li scriverei anche, poi tu li pubblichi e ci devi solo mettere la firma, facciamo cinquanta e cinquanta. Ma sai, non è cattiveria, è che non ho tanto tempo.” 
Comunque, su un punto noi giurati conveniamo: la poesia che vince è davvero molto bella, e se lo merita senza dubbio.
Mentre parlo cerco di immaginare la faccia dell’autore (autrice?) ma nessun indizio mi dice nulla, né le posture, né le espressioni. Nemmeno la fisiognomica mi viene in aiuto. 
Poi parla il docente, dice cose condivisibili e innocue, la solita indignata tiritera, forse un po’ accademica e fuoriluogo dato che non si tratta di un simposio sulla letteratura dove tutti devono macinare varie declinazioni dell’ovvio con linguaggio tecnicistico.
Io cerco di riportare tutto a terra, quando parlo e sento che mi stanno spuntando le ali per il decollo filosofico mi do sempre un pizzicotto e torno in me. Non amo quel modo di parlare di libri. Io non scrivo più ma leggo, e amo entrambe le cose, e non mi va che trattino i libri come cosa morta. Non davanti a me.
Io lo so che sono vivi, lo sento quando scrivevo, le sentivo che palpitavano, le parole mi uscivano fuori imbizzarrite e a volte le domavo a fatica, sgorgavano dalla dita come uccelli che dovevi acchiappare e riportare a casa, ed è per questo, signor professore, che scrivevo con l’ansia, che scrivevo col fiatone, che scrivevo braccata mentre mi illudevo di braccare. “Non mi puoi castigare così…” penso mentre parla il docente. Non mi puoi ridurre a una categoria narratologica, a contraltare di un’analisi, a lapide intellettuale.
Io respiravo, soffrivo, godevo, tossivo, e mentre scrivevo mi esaltavo, mi abbattevo, scopavo, ero uomo e donna, ridevo, avevo sete. Vivevo.
L’aereo di ritorno è un gran peccato doverlo prendere. Vorrei fermarmi ancora un po’, riempirmi di questa Lecce alla quale penso in continuazione da quando sono tornata – anche stasera, mentre veniva su l’acqua per i tortellini.
Non voglio fare prediche o insegnare alcunché a nessuno, ma non so come dire, mi piacerebbe che fosse amata nel verso giusto, questa città preziosa che risplende nel Tacco di questo Paese. E cioè senza campanilismo, senza scemenza subculturale. Col solo senso della terra. Un amore primitivo, pre-intelettuale, non politico. Amata coi cinque sensi, se lo si può, non trasformando l’amore in oggetto contundente o in punteruolo.
Ma vabbè, mi scuoto, non posso più tirarla per le lunghe: il biglietto dice che me ne devo andare. Le cose, va sempre a finire che finiscono.
Non voglio essere sentimentale. Voglio solo che restino queste parole d’amore per questa città, per le sue strade, per quell’attimo che non dimenticherò mai, in cui parlavo al telefono sulle scale della facoltà, ho lasciato che il sole mi bucasse la fronte e ho chiuso gli occhi per un minuto.
Stavo registrando tutto. Io sono come i cavalli. Mi respiri contro e ti riconoscerò per sempre. Ora è tutto mio: cose, piazze, persone, chilometri quadrati. Che lo vogliano o no.
E anche – ve le regalo col consenso dell’autrice – questa poesia di Margherita Macrì.
 
 
DOVE SONO NATA IO
 
Io non ho fiumi
o grandi acque da cantare,
poiché sono nata
in un sole troppo forte
che non fa guardare più in là.
 
Io sono nata con le ginocchia sbucciate
fra i gelsi neri
E le facce mature.
Io sono nata con i capelli bruciati
Appesa fra i calzoncini corti
E il tabacco a seccare.
 
Sono nata dove è sempre estate,
e le altre stagioni son sedute ad aspettare.
Sono nata dietro finestre
che si fanno nido di zanzare.
Dentro soffitti verdi
Di acqua che trapassa le ossa.
 
Dove sono nata io
Il sole si sveglia prima degli uomini
E si corica all’incontro dei mari.
io nel grembo di mia madre
mordevo papaveri rossi
E camomille sgualcite.
 
Dove sono nata io
È solo un ricordo,
e resta dietro di me
come passo d’anziano.
E si alzano altari alla morte
Raggirando qualunque destino.
 

mercoledì 20 marzo 2013